1848 - La resistenza d'oro di Vicenza
Il testo del nostro racconto

L'evento
18 maggio 2024: l'Associazione Domenico Cariolato racconta il '48 a Vicenza al Museo del Risorgimento e della Resistenza assieme all'attore Piergiorgio Piccoli e con l'accompagnamento musicale del Coro e Orchestra di Vicenza diretti da Giuliano Fracasso.
1) Governo austriaco a Vicenza prima del 48
“Camorra larvata col nome di convenuto profitto”: così Gabriele Fantoni liquida il governo austriaco al tempo del 1848. Nelle sue memorie Reminiscenze vicentine negli anni precursori e immediati nel 1848, il famoso notaio a cui il Museo deve la più ricca donazione, rivedeva nella sua vecchiaia i fatti che lui stesso aveva vissuto da quindicenne. Nella sua visione del potere austriaco, sicuramente e volutamente parziale, traccia un fosco quadro di un periodo di oppressione, fatto di angherie e corruzione. Gli austriaci hanno un controllo spasmodico sulla popolazione, mandano all’aria periodicamente librerie alla ricerca di libri sospetti, praticano la tortura dei dissidenti e sospettati nel chiuso della torre carceraria (le urla di notte da lì si sentono in città), vigilano perfino sulle manifestazioni di divertimento collettivo: un apparato repressivo che tiene buona una popolazione addormentata perché più debole e sottoposta ad un incessante regime di sospetto.
“Tempi tristissimi vietavano ogni energia di opera” commenta Vittorio Meneghello, autore della più nota analisi del 48 vicentino scritta nel 1884 e ripubblicata nel 1898 per il cinquantenario celebrato all’Accademia Olimpica.
Il governo austriaco è sentito come “dura necessità” e “non poté e in qualche parte non volle accomodarsi alle nostre costumanze”.
Ma vi è in città un “nucleo di uomini fortemente e virtuosamente operanti a simbolo di speranza”,ad ammonimento e a rimprovero”,così Meneghello. In principio è da ricordare l’Accademia dei filologi, viva tra il 1815 e il 1821, anno della sua chiusura da parte della polizia austriaca. Sono gli anni in cui “elettissimi ingegni” tengono viva la cultura a Vicenza, per esempio Girolamo Egidio di Velo, collaboratore del gabinetto Viessieux, amico di Gino Capponi e di Federico Confalonieri, che tra l’altro, prigioniero in sosta a Vicenza verso lo Spielberg, sarà visitato in carcere dal medico Thiene; e ancora Ambrogio Fusinieri e i fratelli Trissino, che ospitano in villa i “più chiari ingegni della penisola”, come ad esempio Pietro Giordani. Una letteratura antiaustriaca passa nascostamente da mano in mano. Da Padova arriva a Vicenza l’influenza dell’Università e in qualche modo vi è anche un lascito di Napoleone: “memorie epiche duravano fresche e parlavano assai vivamente”.
Prima del 48 la situazione è quella di un’élite con “idee ordinate di liberazione” , per il resto vige un ”giocondo abbandono di gente rassegnata e contenta, che domanda e si appaga dei conforti della vita materiale”. Anche nelle scuole le menti appaiono nel corso del tempo stanche, vi si insegna “per lo più un certo metastasiano ed aulico patriottismo rivolto soprattutto alla gloria dei Romani che avevano conquistato il mondo”. Ma è comunque nelle scuole che nasce un rapporto prezioso tra insegnanti e alunni aperti alle nuove idee, che darà frutto proprio nel 48. Poco prima del 48 anche la borghesia inizia ad essere sempre più contro l’aumentata “durezza dei modi che osteggiava di fronte l’orgoglio veneto”.
La svolta, ci dice Meneghello, avviene con l’elezione di Pio IX nel 1846. Appena eletto, il nuovo papa si dimostra aperto alle idee liberali e diventa così un punto di riferimento per i patrioti, suscitando simpatia e animazione in tutta Italia.
Così anche Vicenza si risveglia:
Se fino allora la polizia sospettava e il popolo abbioscirato (!!!) nell’ignoranza avevano impedito la diffusione delle idee di libertà e di indipendenza, creato il nuovo pontefice, mutarono d’improvviso le condizioni e nel desiderio di pochi consentirono i molti”.
2) Marzo 1848
Alla fine del 1847 si svolge a Venezia il IX Congresso degli scienziati a cui partecipano Lodovico e Valentino Pasini: è l’incontro che fa sentire uniti nella volontà d’indipendenza insieme uomini di scienza ed umanisti e questo spirito viene riportato in città dai due fratelli.
A smuovere gli animi l’8 febbraio 1848 arriva in città l’eco della sanguinosa rivolta di studenti e popolani a Padova. Il 17 marzo anche a Vicenza giungono le notizie di Vienna insorta (il13) e della concessione di una costituzione da Ferdinando I che stavano innescando anche in Italia i moti antiasburgici. I vicentini si raccolgono alla stazione al grido di Viva l’Italia! Viva l’Unità!. Il primo atto è la scelta della bandiera: non più il Leone, ormai stanco, di Venezia ma il tricolore sbandierato la prima volta nel 1794
(Nella foto una bandiera originale del 1848 vicentino, a lungo conservata dalla famiglia Tondelli e donata dalla famiglia Moro nel 2016 al Museo del Risorgimento.)
La bandiera tricolore viene esaltata anche dalla III strofa del Canto dei Crociati (o degli insorti) di Arnaldo Fusinato, il poeta scledense che sarà uno dei protagonisti della rivoluzione vicentina.
Alfine l’abbiamo la nostra bandiera
non più come un giorno sì gialla sì nera,
sul candido lino del nuovo stendardo
ondeggia una verde ghirlanda di allor;
de’nostri tiranni nel sangue codardo
è tinta la zona del terzo color.
La gente procede verso la piazza, dove il drappello di guardia austriaco non reagisce con la forza. Il 18 una Commissione (don G.Fogazzaro, V.Pasini e il podestàCostantini) si reca dal delegato a chiedere la Guardia Civica, che viene concessa dal comandante Thurn und Taxis il 19. La guardia, formata da volontari dai 18 ai 60 anni, si riunisce il 24. Vicenza non si rivolta ma preferisce, sapientemente, istituire una Giunta Straordinaria. Intanto, nella notte tra il 22 e il 23 Fogazzaro, Sebastiano Tecchio e Mosconi sono di nascosto a Venezia, già libera: Manin li accoglie come i primi rappresentanti di terraferma in suolo libero. Su invito di Pasini, Venezia invierà 1500 fucili, salvati per miracolo dal sequestro austriaco. Mentre Thurn und Taxis sta chiedendo alla Giunta che i cittadini non si azzardino ad armarsi, riceve un dispaccio e chiede immediatamente 5ooo alloggi per soldati in arrivo da Padova. Ma non chiede viveri e allora i vicentini capiscono che le truppe austriache si stanno ritirando. I 5000 arrivano col comandante D’Aspre: prima di uscire dalla città richiedono, come già fatto a Padova, tutto il denaro pubblico: e qui c’è la maestria di Pasini, che con precisi richiami giuridici riesce a salvare gran parte dell’erario. La mattina del 25 le truppe austriache iniziano ad uscire dalla città che lasciano definitivamente all’una, tra i viva l’ltalia della folla entusiasta. Alle due in una piazza dei Signori affollatissima la Guardia nazionale occupa la Gran Guardia (Loggia del Capitaniato) e proclama alla piazza l’indipendenza italiana. Si forma il Governo provvisorio che così si presenta:
Nato dalla necessità il governo provvisorio è costituito e concentra in sé tutti i poteri.Il fermo suo proposito di operare il bene, la brava guardia nazionale e la unione dei cittadini sono la sua forza. Viva l’Indipendenza! Viva la libertà! Viva l’Italia! Viva Pio IX!
Il 27, su proposta di Pasini, viene votata in piazza l’adesione alla Repubblica Veneta (voto col cappello!!!) e si istituisce il Comitato provvisorio dipartimentale, che nei suoi componenti rappresenta nobili, borghesi, popolo: Giovanni Bonollo, don Giuseppe Fogazzaro,Luigi Loschi, Valentino Pasini, don Giovanni Rossi, Sebastiano Tecchio, Giovanni Tognato.
Urgente diventa raccogliere fondi (la città si dimostra generosa) e combattenti. In città cominciano ad arrivare Corpi franchi (volontari). Da Padova il 30 marzo arrivano 700 giovani, in gran parte studenti, al comando del generale Sanfermo, “piccolo di persona, buono d’animo, delle cose militari intelligentissimo” perché a suo tempo colonnello del Regno Italico. Con loro anche una donna, MariaTagliapietra, la vessillifera che sarà tra i difensori della nostra città. I giovani vestono “all’italiana”, cioè di velluto nero, velluto, tessuto italiano, e non lana, austriaca, e nero in segno di lutto per l’Italia ancora serva. Portano il cappello “all’Ernani”, il protagonista dell’opera di Verdi, principe divenuto bandito per liberare il suo popolo. Il debutto era stato a La Fenice nel febbraio del 1844 e in estate anche a Vicenza era stata rappresentata il 28 e 30 luglio. L’0pera aveva infiammato gli animi dei patrioti, che avevano fatto proprio il cappello come simbolo della lotta di liberazione.
(Ecco quello conservato al nostro Museo )
Ė un modo di vestire ben riconoscibile che sarà infatti vietato dagli Austriaci (per es. a Milano). Cucita sugli abiti per tutti i nostri volontari una croce: si chiamano Crociati in onore di PioIX..
(Qui è riportato, in divisa di crociato, il ritratto di Camillo Franco, il nostro giovane nobile che morirà nella battaglia del 10 giugno.)
In città si ammassano combattenti in attesa di prendere le armi. Eccoli:
«Nessuno potrà immaginare l'ebbrezza e lo spettacolo di quella prima marcia. Avevamo vestiti di tutte leforme: paletò, mantelli, giacchettoni, bluse di tela: croci di ogni dimensione sulle braccia, sul petto; berretti, cappelloni di tutte le forme, di tutti i colori, con piume di ogni foggia, ed eravamo armati come malandrini e briganti, con daghe, spade, sciabole, stili, pistole, pistoloni, tromboni, schioppi da caccia, fucili a pietra focaia [...1 -rappresentando una fantasmagoria indescrivibile, una ridda delle più strane figure, dei più̀ strani colori, precisamente e fedelmente com'erano i Lombardi alla prima Crociata». (Nestore LEGNAZZI, Sorio e Montebello. 8 aprile 1848, Padova 1892)
Il dì appresso si tenne consiglio; Sanfermo espose i suoi piani. Narrano che Valentino Pasini lo interrompesse dicendo: Badi, Generale, nei Crociati milita il fiore della gioventú Vicentina, se è possibile evitiamo massacri. Ma il vecchietto dondolando la sua vecchia testa e aspirando una buona presa di tabacco si aggiunge ripiccasse seccamente e venetamente: Mi go fato el me piano, mi me li becolo. […] Vicenza nostra pareva diventata Sparta a dirittura nei tempi suoi più gloriosi: non sorridevano più alle menti Vicentine i meschini trionfi della moda, delle frivolezze, del malcostume: ma scosse dal lungo torpore e rivolte per intero agli apparati guerreschi, toccavano già le ricche prede in conquista e proseguivano nella fantasia, come avverati, i solenni trionfi delle libere armi. Uniti da un entusiasmo, che oggi non si comprende più, alteri di essere la primizia guerriera della patria rinnovata, sicuri di debellare l'oste Austriaca, anzi di spaventarla colla sola presenza, i crociati partirono. V'erano tutti. Uomini incanutiti nel culto alla patria, nella devozione alla libertà e acerbi fanciulli : popolani, che aveano con entusiasmo mutati i ferri del mestiere e patrizi azzimati, fuggenti in un'ora di dignità i fatui saloni e il lungo ozio superbo: professori, che lasciata la cattedra guidavano a combattere gli studenti disertati dagli Atenei: sacerdoti animosi e pii, punti di vergogna per l'ingiusto patire, solleciti della religione e insieme ferventi di patria carità: in gran numero medici, avvocati, ingegneri, ex-militari, artigiani, possidenti, negozianti, chierici e a compiere il quadro non pochi frati, che agitando il Crocefisso nel nome d'Italia bandivano, come Pietro l'Eremita, la santità della causa e invocavano propiziatore il Dio degli eserciti.La massima parte male in arnese. Alcuni portavano picche degne dell'Evo Medio, improvvisate nella prima furia del moto, altri arrugginiti archibusi a pietra focaia, vecchi fondi dell'arsenale Veneziano; i meglio arredati recavano fucili da caccia, un piccolo battaglione fucili Schneider.
SORIO
Il 6 aprile il grosso dei Crociati, formato da Padovani, bassanesi, scledensi, trevigiani, vicentini, escono sotto il comando del vecchio generale Sanfermo per presidiare le vie d’accesso da Verona, occupando in particolare le colline intorno a Montebello e Gambellara. Presto il clima festoso con cui si era partiti era cambiato e nei giorni successivi gli scontri con gli Austriaci diventano difficili. Alle 9 di mattina dell’8 aprile sopraggiunge con il grosso delle truppe il principe Liechtenstein, che, avendo in precedenza comandato la guarnigione di Vicenza, conosceva bene i luoghi, e attacca con forza Sorio. In una situazione che si fa confusa, la linea difensiva appare subito labile, i nostri si disperdono in preda al panico, la ritirata è scomposta. Il bilancio è tragico: più di 50 morti, 30 prigionieri (29 liberati da Radetzky, 1 fucilato perché disertore) e tanti feriti. Case incendiate, uccisi anche alcuni abitanti . La prima battaglia aveva dimostrato che un confronto in campo aperto era pericoloso e perdente.
Dopo Sorio
La città, dove ordinatamente di notte arriva il gruppo scledense con Arnaldo Fusinato, è piena di sgomento e di desolazione. Ma la reazione non si fa attendere. Le donne vicentine si prestano con efficienza a curare i feriti, nobildonne come Drusilla Loschi Dal Verme trasformano il loro palazzo in ospedale. Il ringraziamento alla loro opera arriva anche dal giornale padovano Il Caffè Pedrocchi.
Come è riportato sul foglio, viene fatta una messa per i caduti. Il ruolo dei sacerdoti durante la primavera vicentina è di fatto fondamentale: a partire dal vescovo Cappellari, e ovviamente passando per don Giuseppe Fogazzaro, partecipe del governo cittadino, don Rossi, incaricato di raccogliere fondi, e fino ai parroci e ai cappellani, in tanti partecipano allo spirito patriottico.
Barricate e difesa
Manifesti del Comitato 5 aprile e 27 aprile
l Comitato ha già dati gli ordini perché sieno chiusi e severamente custoditi gli ingressi della città: ha acquistato casse e botti: ha spedito a Venezia persona che procacci quattro mila sacchi da empirsi di terra: ha commesso altri arnesi, che al grande uopo soccorrano. Tutti i cittadini debbono associarsi all’opera del Comitato, tutti debbono radunare nelle loro case carri e sassi ed erpici, legna e tegole e calce e pece e tizzoni.
Noi alzeremo delle barricate, voi coraggiosamente le difenderete.
Riuniamoci tutti, riuniamoci tutti nella gloriosa impresa, che non si dica di noi che abbiamo vilmente ceduto. Il vostro Comitato vi darà l’esempio della fermezza nell’ora del pericolo - Voi lo seconderete, ei n’è sicuro. Viva l'indipendenza d’ Italia
Si raccolgono fondi e si dona con generosità (celebre e misterioso il dono di un anello ricevuto dal donatore addirittura dallo zar Nicola…)
I manifesti del Comitato nei giorni di aprile si moltiplicano, si scrive e si va da Carlo Alberto ,che risponde educatamente (ma l’esercito sabaudo non interverrà nella difesa della città…) e soprattutto si contatta il generale delle truppe pontificie Giovanni Durando, che da Ferrara invia i primi bersaglieri. E ricordiamo subito che dopo l’allocuzione di PioIX, Non semel,del 29 aprile con cui il pontefice dichiarava la neutralità in base alla sua missione universale e sosteneva di non poter combattere contro l’Austria, uno stato cattolico, la maggior parte dei pontifici al seguito del generale rimasero a combattere a fianco delle città liberate.
Tra l’altro l’aiuto che viene dall’Emilia e dalla Romagna a Vicenza è veramente importante: arrivano i battaglioni dei Civici dall’Alto Reno, da Lugo, da Faenza, da Ravenna, da Forlì… Testimonianza della vicinanza con Vicenza è proprio ad es. il quadro di Achille Calzi che abbiamo scelto per la nostra locandina, che si trova al Museo del Risorgimento di Faenza ed ancora il proclama che il Governo provvisorio di Modena emanerà il 14 giugno a ricordo del coraggio dei vicentini dopo la caduta della nostra città.
Maggio
Ai primi di maggio si capisce che ormai gli Austriaci verranno a riprendersi Vicenza. Il primo maggio il vescovo Cappellari, insensibile all’allocuzione papale, con parole che inneggiano al diritto dei popoli alla libertà, impartisce la benedizione pastorale ai difensori e fa esporre per tre giorni in cattedrale la reliquia della S.Croce. L’architetto Caregaro Negrin ha progettato le fortificazioni e disegnato le mappe delle difese. I volontari, circa 3500, vengono schierati: da S.Lucia a Pt.Padova Universitari, battaglione Alto Reno, legione Gallieno e fucilieri vicentini; da Casale a Pt.Monte i Faentini; da Pt.Lupia a Mt.Berico i Vicentini. A metà mese gli esploratori fanno sapere che gli Austriaci sono pronti a partire da Cittadella. Il 20 maggio attaccano da borgo Scrofa. Sentiamo come Meneghello riporta le testimonianze:
Erano circa le una. Fu dato l'allarme. I tamburi suonarono la generale: le campane, che ispirarono il famoso lied di Schiller, agitarono i battagli, queste grosse lagrime di bronzo, invocanti non più, la frequenza dei rassegnati alla chiesa di Dio: ma l'aiuto di tutti alla patria invasa. Per le vie fioriscono sulle labbra gli inni e gli evviva: accorrono in un baleno volontari e cittadini. Scorgonsi i membri del Comitato, che impugnato un fucile vanno a battersi come semplici soldati. Procedono tutti colle coccarde tricolori sul petto: mentre le donne pregano con ansia affettuosa per chi combatte e per chi morirà devoto alla patria.
I Croati si accostavano verso il borgo Scrofa strisciando carponi tra il frumento. Poi evitando le barricate riuscirono a trafugarsi nel recinto Scrofa, a metà circa della via interna, che da S. Lucia conduce a porta Padova.
E qui volevano riuscire: ma scorti da un servo, che avverti di ciò i Romani, furono accolti a fucilate dal secondo battaglione della terza legione comandata dal maggiore Ceccarini. Ben presto la zuffa diventa generale e ardente. Le squadre degli imperiali si smarriscono, tentennano, indietreggiano davanti all'impeto dei difensori.
Si combatte in largo giro. Tuonano le artiglierie: piovono bombe e razzi. Scoppia la mitraglia sino a S.Corona e suonano tutte le campane.
Gli Austriaci, ricacciati da tutte le parti e inseguiti dopo d'avere appiccato il fuoco ad alcune case del borgo Scrofa, ripararono dietro il Cimitero Israelitico. E quando i tiri di sbieco del cannone a porta S. Bortolo ebbero a snidarli, proseguirono la ritirata verso Cresole e Rettorgole.(p.66-67)
Ed ecco come descrive la forza di Gallieno, comandante dei Romani:
Ed ecco come descrive la forza di Gallieno, comandante dei Romani:
Il colonnello Gallieno difendeva con i suoi il recinto Scrofa verso porta Padova. Non piegò mai. Pareva- fu detto - un leone ruggente. Quando pendeva incerta la fortuna negli scontri parziali, compariva lui a rianimare, guidava lui i soldati indecisi alle cariche
gloriose, e il comando laconico, solenne, vibrante si spandeva per l'aere commosso della battaglia a persuadere agli incerti animi la vittoria.
Pareva un cercatore della morte. Ebbe il cavallo ucciso sotto, ebbe gli abiti e il cappello forati dalle palle; ma restò illeso, quasi la fortuna rispettasse tanto singolare valore. (p.68)
L’entusiasmo per questa giornata è grande in città. Tommaseo e Manin arrivano da Venezia. La notte arriva col grosso dell’esercito il generale Durando. Giunge in città anche il generale Antonini, ex ufficiale napoleonico, mossosi da Parigi con la legione di volontari da lui stesso formata. Proprio lui decide di inseguire gli Austriaci per non permettere loro di raggiungere Verona, ma la sortita, avventata, non riesce. Perde un braccio, che, particolare un po’ macabro, verrà imbalsamato. Il giorno 22 è di quiete, ma il 23 notte,
“nella voce diffusa dai sacri bronzi agitati a stormo parlava la patria, la gran madre di tutti, invocante a difesa i figli, e il grido si spandeva nella immensità profonda, nera, paurosa della notte, triste come un lamento e solenne come un comando. Era imminente l’ora degli amori e dei delitti ossia in lingua povera mancava poco a mezzanotte, quando gli Austriaci assalirono la città. Pioveva furiosamente e le sentinelle tendevano l’orecchio (pag.76).
Gli Austriaci attaccano dalla Loggetta e costringono i difensori a piegare su porta Castello; ma il colonnello Zanellato e il sottotenente Molon scaricano cannonate dalla postazione di Monte Berico e la posizione dominante ha la meglio. Gli Austriaci sperano allora di accerchiare la città dai colli, ma, facendo tracimare il Retrone, vengono dai nostri allagati i campi. Alla Rocchetta l’eroismo dei cittadini: si deve sgomberare la polveriera, che rischia di saltare in aria e in tanti, vecchi, donne e ragazzi, si danno da fare con carri, carriole a portare in salvo sotto la basilica i 250 barili di polvere. Testimonianza è il celebre quadro di Bottazzi esposto al nostro Museo di cui qui vediamo un disegno preparatorio dell’autore.
Tutta la città è in fermento: un cronista del tempo dall’alto dei Berici vede splendere tutte le luci, le case sono illuminate ed aperte, le campane continuano ininterrottamente a suonare a stormo, sfidando il suono delle cannonate, dappertutto è un via vai di cittadini che si danno da fare. E sono anche le donne le protagoniste di questa notte, e non confinate solo alla cura dei feriti, ma attive nella lotta.
Gli scontri durano tutta la notte.Verso le 8 gli Austriaci cominciano a cedere, il giovane tenente Framarin riesce addirittura a respingerli verso il Biron. Alle 9 si ritirano. Da Monte Berico Zanellato…
Giacomo Zanellato con stoica serenità puntava calmissimo e sicuro. Dritto fra i cannoni levava di tanto in tanto dalle enormi tasche un fazzoletto ampio, come una bandiera di nave ammiraglia, aspirava con evidente soddisfazione una enorme presa di tabacco, esclamando di tanto in tanto:I va, I va, sti f… de c.. (p.79).
Cosa resta dopo la battaglia ce lo descrive un servitore del marchese Gonzati, Pietro Soga, in una lettera al padrone.
“tute le case disabitate, e rotto tuto quello che anno trovato, porte, balconi [...] il borgo di San Felice tuto rotto disabitato, quando son rivà alla fornasa de Bassi o veduto a sepelire un canoniero tedesco cose che mi rendevano molto spezie, a vedere così pure andando avanti si vedevano tutto sangue, pezze insanguinate, in soma cose orende [...]”.
“Stimatissimo signor Padron [...]. Se lei vedesse, Vicenza non è conosibile a vedere. I borghi spianati per molta distanza. Santa Croce sul borgo tuto spianato. Il stradone dei Capucini è tuto neto; non vi è più nessuna pianta. Da una parte e dal laltra un gran fortin, che non vi è canon che lo passi, fabricà dai Svizeri e così pure sul Ponte di Santa Croce quanto si può tirar l’ochio è tuto abasso. Si dice anche la chiesa di santo Tonin che la vada butata abasso. Adesso i canoni da monte batte da sino da Bertolin e così da tute le porte del- la città. Adesso Vicenza non par più che sia Vicenza; a star sui borghi par una nuova cità, molto melglio de prima. Qui abiamo molta trupa, tuti di linea, di molti Regimenti ma tuti del Papa. Il corpo più grosso sono i Guizeri fanteria cavaleria di molte divise. Domenica sono rivà mille cinquecento caziatori, geri ottocento. Il palazzo della Ragione è tuto pieno; il palazzo Torniero caserma; palazo Trisino caserma; duecento da Teodoro Fero e molti altri a Monte, cominzia al Cristo sino alla Chiesa, tuto il portico pieno di palgia; servono di caserma a Monte più di tre mille uomini. Io asse curo che Vicenza dopo che è Vicenza non à mai avuto tanti spetacoli perché ogni sera vanno in Piaza due bande che sona ogni sera con evviva, evviva l’Italia, viva Pio Nono, viva l’unione e la libertà”.
Tra gli esempi di valore bisogna citare Luigi Parisotto:
Eletto dal suo carattere generoso e ardente, ma più dalle circostanze singolarissime a capo popolo esercitò la dignità involontaria con sicura fermezza, proteggendo l’ordine, persuadendo l'unione. Alto della persona e fortissimo, d'animo saldo e buono, schietto e fiero raccolse come in nitido specchio le qualità del popolano Vicentino. I vecchi ricordano la piazza del Duomo affollata di persone, sgombra a un suo cenno. Nato dal popolo né desideroso di uscirne, pose tutta la sua influenza al servizio del Comitato di difesa. Cadute le grandi speranze, esulò, tornato si chiuse in solitudine sdegnosa e selvaggia. Patì la sorveglianza austriaca, che gli tolse ogni modo di vita, che lo perseguitò sempre, ma senza ottener mai ch' egli piegasse il capo onesto ed altero alla straniera signoria, nè l’animo alle viltà, che persuade la fame.
Salutiamo l'ombra geniale di Luigi Parisotto di quest' uomo, morto poverissimo e incolpito.Nelle ore pomeridiane del 23 maggio fu dato appunto a lui incarico di tentare una ricognizione sulla stradale Veronese. Incontrata presso l’Olmo l'avanguardia nemica, voltò precipitosamente il cavallo fra le palle fischianti e si ridusse in città annunziando che la tedesca rabbia stringeva da presso Vicenza.(MENEGHELLO,pp.74-75)
10 giugno
Vicenza, ormai si capisce bene, vuole resistere. Radetzky, chiuso a Verona dopo la resa di Peschiera ai sabaudi il 30 maggio e la sconfitta a Goito, non ha vie d’uscita se non rimpadronirsi della nostra città. Così sguarnisce in segreto Verona e marcia su Vicenza con 43.000 uomini e 118 pezzi di cannone. Questa volta attaccherà la città dai suoi colli. Durando, che ormai intenderebbe raccogliere la difesa intorno a Venezia, non dubita invece di restare e mettere in esecuzione un piano di difesa. La sera del 9 giugno da Monte Berico i comandanti D’Azeglio e Cialdini vedono un’ininterrotta fila di fuochi nella lunga strada verso Montagnana. “Domani è una seria giornata” commenta il capitano Lentulus. L’ufficiale romano Ravioli, che scrisse un diario di quei giorni, lì presente, ci dà un’idea del clima di sospensione di quella sera.
Dopo ciò ci ritirammo aspettando tranquilli le avvisaglie nemiche. Ci recammo nella bottega del caffè, che era situata quasi in faccia al Santuario del Monte. M’era vicino il colonnello d'Azeglio; tutti eravamo seduti, stanchi e taciturni in attesa di un allarme. Il d' Azeglio ad un tratto si volse a me e disse: Ravioli, stiamo di buon animo, prendiamo una tazza di caffè. Feci cenno di accettare l'invito. Dopo questo sulle nostre sedie cercammo di pigliar sonno. (Da Camillo RAVIOLI, La campagna nel Veneto nel 1848 tenuta da due Divisioni e da Corpi franchi degli Stati Romani sotto la condotta del generale Giovanni Durando, Roma,1883)
Alle 4 del 10 giugno cominciano le fucilate. Gli Austriaci scendono dai Berici e prendono Castel Rambaldo (Villa Margherita). Alla Bella Guarda e soprattutto sul colle Ambellicopoli si combatte e il terreno è conteso palmo a palmo. Ma il numero degli attaccanti è soverchiante, e assale anche ai fianchi del monte.
Si arriva a al santuario: la lotta continua al suo interno ed è orrendamente furiosa. Una tavola di Achille Beltrame fissa l’attimo in cui il principe Liechtenstein a cavallo viene colpito e ucciso dall’ultimo sforzo di un moribondo.
Il dopo sarà brutale, il santuario e il convento saccheggiati dai croati impazziti vincitori. È ancora Soga che scrive al padrone che ce ne dà una commossa sintesi:
“Sono stato a Monte a vedere le rovine nella chiesa a vedere gli altari! Sino cavà le reliquie delle pietre sacre! Befegià i miracoli e rote le casete de le limosine, spacà a pezi l’altare de la Madona, il parapeto cavà e sotto la mensa per vedere si trova roba. Il convento è pieno di croati e così pur tute le case che si trova a Monte tute piene. Nessun patron è patron; tuto roto, balconi, vetri, mobili, insoma tuto; cossì pur tuti i palazi sono pieni i partamenti e porte”.
A S.Lucia tre volte la barricata viene travolta e tre volte rimessa. Durando sa che per essere salva Vicenza deve capitolare. Ma i vicentini all’interno delle mura non vogliono la resa. A Parisotto si chiede, a lui sempre ascoltato, di convincere la gente: il capopolo rifiuta. Durando scrive
Vicentini! La capitolazione è divenuta inevitabile, l’onore lo permette, la umanità lo domanda, la sorte della Città sarà tutelata. Io non potrei consigliarvi cosa che fosse contro la patria, alla quale abbiamo pagato il debito
Ma il Comitato dichiara incompatibile con la sua dignità segnare la resa. Dopo 16 ore di lotta la bandiera bianca viene issata al posto di quella rossa da combattimento: in piazza volontari la riempiono di moschettate.
Dopo lunghe discussioni si firma la capitolazione: all’esercito pontificio è concesso riparare da Vicenza, non potrà combattere per tre mesi contro l’Austria; a Durando, che si è raccomandato particolarmente a Radetzky per le sorti di Vicenza, si promette che gli abitanti della città saranno rispettati per il valore dimostrato e trattati secondo “i principi benevoli del suo Governo”.
Il giorno 11 i difensori della città escono da porta Monte con gli onori delle armi.
Così Meneghello, che molto ci ha aiutato in questo racconto, chiude, e noi con lui, la sua rievocazione:
Così con gli onori delle armi, musica in testa e bandiere spiegate uscirono dalla vinta città i difensori con gran seguito di cittadini, cui riusciva incomportabile il soggiorno nel proprio paese, insozzato di straniero dominio. Più tardi gli Austriaci entravano in Vicenza.
Erano chiuse le case come deserte le vie. Pareva una città di morti.
La grande immagine della patria serva camminava tra le file dei difensori scorati, ma non domi: addolorati ma incrollabili nella fede, da tanti consacrata col sangue.
È un giorno memorabile l’11 giugno 1848 perché da quel dì l’ Austriaco governo non ritrovò più qui una provincia dell'impero, ma vi potè soltanto collocare un accampamento tedesco, che durò 18 anni, ma dovette finalmente levarsi.
Le idee diventano fatti nella ragione del tempo. (p.93)
Vicenza, 18 maggio 2024
TESTI E FOTO A CURA DI FRANCESCA GOTTIN, LUIGI CARIOLATO, GIUSEPPINA LUGO